Rare

2006

Isole senza mare, li chiamano così. Sono i bambini affetti da malattie in condizione rara. Isole perché la malattia è di per sé solitudine, senza mare perché la rarità della patologia, forse, toglie l’ultima possibilità di condivisione. Un vecchio detto scandinavo, di contro, racconta come un’isola sia ovunque, acqua o non acqua, e che proprio per questo diventa universo perfetto: possiede codici suoi, e risorse sue, custodisce unicità e stupori che esistono in quel cerchio preciso di esistenza. I bambini stupiscono, i bambini affetti da patologie rare stupiscono due volte di più. Per i loro codici, prima. Per l’unicità che li fa universi sconfinati, soprattutto. Al di là di un mare.

 

Un cucchiaino di yogurt, uno di soddisfazione. Sara, prima isola

Ha lineamenti alterati, la posa quasi in movimento, gli occhi asimmetrici. Sorride. La bambina si chiama Sara, in realtà ha ventotto anni. Ha la sindrome di Wolf-Hirschhorn, una malattia genetica che colpisce 1 caso su circa 50mila nati vivi. Chi ne viene affetto ha problemi che riguardano la crescita, l’alimentazione autonoma, l’acquisizione delle tappe di sviluppo (stare seduto, camminare e parlare), il ritardo intellettivo grave e la possibilità di malformazioni. In Italia sono 75 le persone affette da questa patologia. Una è Sara, vive a Carpi, nel modenese. I suoi genitori sono sulla porta di casa, Giorgio, il papà, ha 50 anni ed è operaio in cassa integrazione. Silvia, la mamma, ha 47 anni ed è casalinga: «A un certo punto ho dovuto scegliere se lasciare mia figlia con qualcuno che si occupasse di lei mentre lavoravo, ho scelto di farlo io». Mi accompagnano dentro, il brusio della televisione viene dalla cucina. Arriviamo lì, Sara è seduta nel suo seggiolone e ha due scatoline tra le dita, le rotea, le incastra una nell’altra, e ancora e ancora. Si ferma, alza una mano davanti al viso. Il padre mi avverte che è il suo modo per sentire gli estranei: «La sindrome di Wolf può svilupparsi con caratteristiche diverse. L’amore per le abitudini accomuna quasi tutti i malati. Per accettare una persona nuova, un imprevisto, ci vuole un po’ di tempo». Racconta come abbiano scoperto la malattia quando la bambina aveva sette anni. Quella è stata la diagnosi ufficiale. Prima c’erano stati alcuni segnali: una crescita rallentata, gli occhi che non lacrimavano, i movimenti difficoltosi, la comunicazione verbale quasi a zero. Sara non ha mai parlato, inteso come lo intendiamo noi. Ma è un’isola, e ha il suo codice prezioso: emette dei piccoli versi che dicono molto per chi sa interpretarli. Ne fa uno mentre ci accomodiamo a tavola, la madre le risponde che ci vuole ancora tempo prima di servire in tavola i tortelli di zucca. Sara ricomincia con le sue scatoline di plastica e non smette di osservare: «Ha difficoltà con la vista, in compenso ha un udito ipersensibile. La musica è la sua passione. Assieme allo yogurt e ai giri in macchina.» Appena suo padre pronuncia “macchina”, Sara fa uno dei suo mormorii e qui capisco quello che mi è stato detto prima di incontrarla. Chi è affetto da sindromi rare come quella di Wolf sviluppa percezioni sorprendenti: l’udito e l’olfatto sono ipersensibili, quando la madre serve il pranzo, Sara ispira più volte, poi ride. Il sorriso assomiglia a quello del padre. Giorgio è segretario nazionale dell’AISIWH (Associazione nazionale sulla sindrome di Wolf-Hirschhorn), «Quest’anno siamo riusciti a raccogliere trentamila euro, ma è molto difficile perché la gente fa donazioni a malattie più “famose”. Grazia alla ricerca, ad esempio, solo tre anni fa si è capito che la sindrome di Wolf è degenerativa». Sara emette una delle sue parole, la madre sta portando in tavola il pranzo, sarà lei a imboccarla, «Quando abbiamo scoperto la sindrome è stata durissima. Io avevo diciotto anni, mio marito venti ed era spesso via per lavoro. Per due volte me ne sono andata di casa, andavo fuori dalla porta, fuori dal cancello e camminavo senza una meta, non sapevo come lasciarmi tutto alle spalle. Poi, dopo un anno, abbiamo capito: e abbiamo accettato la cosa. Dobbiamo dire grazie a questa famiglia estesa, se non ci fossero stati i miei suoceri non ce l’avremmo fatta». In famiglia vivono anche Franco e Bruna, i nonni. Bruna ha 67 anni e un passato in ambito ospedaliero, appena Sara la vede comunica ad agitarsi finché la nonna va da lei e l’abbraccia, «È stata Sara a insegnarci a vivere, non viceversa. In un certo senso è lei che tiene unita così bene la famiglia. Dovendola accudire, ci dà un senso di legame forte». La nonna raggiunge il frigorifero, prende uno yogurt alla fragola. È adesso che Sara comincia a strepitare. Tutti guardano me, io non capisco. Silvia mi spiega, «Vuole te. Per il primo cucchiaio di yogurt, è il suo modo per dirti che ti ha accettato». Così capisco l’ennesima lezione: anche noi, cosiddetti normodotati, dobbiamo essere accettati. Prendo il cucchino e il vasetto alla fragola, rimango impalato. Sara invece ha questa mano forte che mi tiene per una manica. Faccio in tempo a darle un po’ di yogurt, mi sento tirare giù, mi sento prendere al collo, è un abbraccio. Rimango stretto a lei. Da lì sento le parole del padre, «Ci sentiamo fortunati perché siamo genitori in grado di crescere una figlia come lei. Avere un figlio che si laurea con 110 e lode ti dà soddisfazione, è sicuro. Avere una figlia con una sindrome rara in grado di farti capire che ti vuol bene ti dà ancora più soddisfazione, è una certezza».

 

Cinque passi, per tutti i Topolini. Gioia, seconda isola

In un cartone animato c’è Topolino che è stufo della sua vecchia automobile: la cambia con un nuova, strepitosa. Ha ruote e carrozzeria scintillanti, ha soprattutto un casco da parrucchiere che rifà l’acconciatura di chi guida. Appena Topolino mette in moto il casco scende e gli finisce in testa, quando risale le orecchie non ci sono più. Ci sono dei ricci così grandi che non si vede più nemmeno un topo. Questa storia inizia così, con il cartone animato più famoso del mondo e una bambina che davanti a un’automobile-ricci-perfetti si mette a ridere come mai non era riuscita a fare nella vita. Lei si chiama Gioia, ha quattro anni e mezzo ed è affetta da sindrome o associazione C.H.A.R.G.E. Un malattia rara che può portare alla cecità e alla sordità: «Ogni lettera della parola “C.h.a.r.g.e.” è un guaio: la C per esempio sta per Coloboma: difetto della struttura oculare» È il papà di Gioia, Andrea (41 anni), a spiegarci che la figlia “soffre” di cinque lettere su sei (per essere ufficialmente affetti da questa patologia ne bastano due): alla nascita Gioia era quasi cieca, aveva disturbi cardiaci (H, Heart), difficoltà a respirare (A), un ritardo di crescita e sviluppo (R), e non aveva un udito pressoché nullo (E). Mancava la G,: malformazione dei genitali. «Dopo la sua nascita non capivamo bene come affrontare tutto, abbiamo dovuto lottare per trovare delle persone competenti che ci aiutassero nella cosa più importante: la riabilitazione. Siamo rimasti soli per almeno un anno, passavamo da un ospedale all’altro». La risata davanti all’automobile di Topolino è il simbolo di questa lotta, vinta e stravinta, e ancora in corsa: Gioia adesso riesce a sentire (è stata operata e viene seguita quotidianamente nella rieducazione uditiva), e vede (due decimi in un occhio, un ventesimo nell’altro: anche qui è fondamentale la riabilitazione). E poi ride. Ed è un tornado, non sta ferma un attimo, sconfiggendo le previsioni mediche che la vedevano quasi spacciata nei movimenti. Quando arrivo nella sua casa di Grancona (1500 anime in provincia di Vicenza), Gioia sta cercando di convincere la sua mamma Nadia (esprimendosi in mormorii e in LIS, la lingua dei segni) a farsi dare il terzo cioccolatino del giorno (all’inizio poteva cibarsi solo con sondini e tubi). «Questa malattia è una macedonia», Nadia sorride, «Ci sono così tanti aspetti da affrontare che ogni caso di bimbo CHARGINO – io li chiamo così – è particolare». Nadia e Andrea hanno seguito Gioia da un ospedale all’altro, fino a “comporre” la squadra che li sta seguendo adesso. In cima a tutto, c’è una specie di armonia, difficile da spiegare: siamo tutti seduti allo stesso tavolo, Nadia è vicina a sua figlia e le disegna un cavallo. In questo cavallo, dopo Topolino, c’è l’altro simbolo di passi in avanti fatti da Gioia: due volte a settimana la bimba fa un po’ di equitazione, seguita da un istruttore che sa come aiutarla a comunicare attraverso la cosiddetta ippo terapia. Sono i “ponti” indispensabili a stimolarla per contrastare i “danni” della malattia, che al contrario della Wolf non è degenerativa. Il cavallo disegnato da Nadia ha questa criniera a boccoli, Gioia lo completa facendo i ciuffi d’erba vicino agli zoccoli. Poi si blocca, si sistema gli occhialetti, e guarda dall’altra parte del tavolo. Lì c’è Emma, la sorella. Emma ha tredici anni, ma sembra molto più grande della sua età, nei movimenti e in come si prende cura di Gioia. «Le abbiamo chiesto di crescere molto in fretta» Andrea guarda la figlia maggiore avvicinarsi alla più piccola. Emma racconta come all’inizio era spaventata per la malattia della sorella, soprattutto per gli occhi pesti di Gioia (vengono a causa dei disturbi cardiaci). Adesso se la tiene addosso, come la teneva addosso in un filmato di due anni prima che mi mostrano: c’è Gioia in piedi, traballante, appoggiata a un armadio. Emma è poco distante e la chiama agitando le mani. Gioia ha paura, ma si fida. Cammina verso di lei, cinque, sei passi. Poi si tuffa verso la sorella che la prende al volo. È la sua prima camminata.

 

Maria Pia, Musica maestro. Lapplauso della terza isola: una mano nella mano

L’ultima isola senza mare si chiama Maria Pia. Ha 7 anni e ufficialmente non vede, non sente, si muove appena. È ferma su un seggiolone, gli occhi aperti anche se dorme e una grazia che vince la maldestria del corpo. È l’isola delle isole, perché non ha sindrome specifica ma un insieme di problemi che sfuggono ogni sigla, etichetta, terapia possibile. «Non sappiamo cos’ha. Ma qualsiasi cosa sia le è stata diagnosticata a cinque mesi. Abbiamo deciso di tenerla, è una questione di scelte». A dirlo è il papà, Nicola, 38 anni, dipendente statale. Poche parole, sussurrate, pazienti. Mi fa accomodare nella sua bella casa di Osimo, cittadina famosa perché qui c’è la sede della Lega del Filo d’Oro, «Una struttura meravigliosa. Perché ti supportano, ti assistono per la fisioterapia e per gli aspetti psicologici. Perché non ti fanno sentire soli» Teresa, mamma di 35 anni (pugliese come Nicola) ha perso due bambini prima di avere Maria Pia, «e questo è stato uno dei motivi per cui ho detto che sì, dovevamo provarci. I medici ci avevano avvertiti che nostra figlia probabilmente non ce l’avrebbe fatta, invece ha smentito tutti». È così, Maria Pia ha smentito tutti e non solo perché è sopravvissuta, ma anche per due poteri sottili: il primo è l’udito. Per la scienza è completamente sorda, la verità è che non lo è affatto. Riconosce le voci, madre e padre, il nonno al cellulare: ma soprattutto Al Bano Carrisi. Non c’è niente che la faccia stare bene come il cantante «basta mettere il suo disco e lei si tranquillizza. È felice» Teresa prende in braccio Maria Pia e la bambina non fa un gesto, ha questi occhietti spalancati che non chiude mai (è un’altra complicazione della malattia). Respira a bocca semichiusa, non c’è altro movimento. La portano in una stanza, ci sono fotografie del matrimonio tra Teresa e Nicola (si sono conosciuti a 20 anni e “inseguiti” tra la Puglia, la Germania e altre parti d’Italia), ci sono molti giochi di Maria Pia, alcuni forniti dalla Lega del filo d’Oro per stimolare i sensi della bambina. «Adesso dorme perché ha problemi di termo-regolazione. Altre volte fa così come autodifesa, si estrania». C’è questo piccolo fischio che le esce dalla bocca, è un respiro profondo, poi qualcosa cambia. La mamma mette su il cd di Al Bano e Maria Pia ha un sussulto, si inarca contro il padre e ritorna immobile, muove appena la testa e tiene una manina nell’altra. È il secondo potere sottile. La mano nella mano: «sta dicendo che sta bene». Continua a farlo, avvolge il pugno nel palmo. Il segnale con cui parla al mondo, contenere una parte di sé in un’altra. Custodirsi, mano nella mano. È l’applauso al Maestro Al Bano, a se stessa e ai bambini rari come lei. Sara, prima isola. E Gioia, seconda. E tutti gli altri. Isole di un mare loro, speciale.

 

Marco Missiroli